di Paolo Pugni
Abbiamo strappato via il nostro cognome dalla faccia e lo abbiamo gettato al vento, perché lo sentivamo come una gabbia.
Mi chiedo se non ci sia la medesima ribellione nella proliferazione dei nickname, e mentre lo scrivo vedo già la vostra faccia che s’impenna e ostenta sofferenza.
Lo so, lo so, è esagerato, è provocazione: ma per un solo istante, provate a non farvi strattonare da qui pregiudizi che sono la difesa di noi stessi e lasciatevi guidare da queste istigazioni che hanno lo scopo di liberare la mente, scatenarla dai legami dell’abitudine, darle vento alle vele e lasciarla solcare il mare aperto.
Che nome e cognome potranno essere auspicio, ma sono soprattutto identità.
E se il nome impone una individualità, soggetto riflessivo anche se dato, il cognome inchioda ad una appartenenza, ad una stirpe, ad una famiglia.
Questa poi è l’epoca che ciò che tollera sono solo i nomi propri, avendo sventrato ogni famiglia e con essa il legame che ci teneva ancorati ad una storia che scorre nella trama dei secoli.
Ma se il nome afferma “io” invece che “noi” siamo ormai andati oltre al punto da volerlo possedere con violenza, perché se io sono mio (anche al femminile) e se io esiste, e se io posso scegliere il gender allora perché non risalire fino a quelle radici e laddove nego la natura negare anche quel marchio che i genitori mi hanno impresso facendo di una creatura un Alessandro o una Francesca?
(E per la verità alcuni ne avrebbero donde per rimediare a quell’ubriacatura, o peggio pre-coma etilico o tossicodipendente, che li ha assaliti per affibbiare, con vigliacco egoismo, sequenze di lettere che nomi non si possono nemmeno chiamare, etichette che se pesano su chi li porta come macigni graffiti, come catene da ergastolani di vecchi film e più antichi libri, stanno ad indicare come maschere che deridono e insultano, proprio i genitori che con generosa idiozia li hanno partoriti).
Contro questo nome, mio eppure no, vogliamo sparare quando in un mondo nuovo, questo sì nostro, ci presentiamo identificati da un appellativo ricorrente, e fantastico, che afferma tanto quanto nega. Non è così?
No, probabilmente no, e lo so bene, ma questa sfida andava lanciata perché ognuno potesse riemergere dal tuffo con una certezza vivace e smaltata.
Perché questa è l’epoca del rifiuto, che per affermare se stesso come radice, vuol dire tagliare i fili che non ci sottraggono il movimento, ma ci sorreggono nelle debolezze.
Abbiamo rinunciato al nostro cognome, ma non l’abbiamo sostituito con nulla, perché non c’è un altro cognome sotto il cielo nel quale riconoscersi, e senza nome di famiglia vagheremo come lupi l’un per l’altro, ostili e bramosi, opponendo libertà a libertà.
Infatti non ci sono sconti: non c’è ragione per considerarci fratelli se non fossimo figli di un medesimo Padre.
Se non avessimo quindi il medesimo cognome.